Diritto e pratica delle Società |
La giurisprudenza di
legittimità |
Il Sole 24 Ore Pirola
Indeducibilità dal reddito dimpresa
degli ultimi del familiare associato
In una recente pronuncia la cassazione chiarisce che i compensi erogati
da parte di un imprenditore individuale ad un associato in partecipazione
a cui è legato da rapporti di parentela non sono deducibili dal reddito dimpresa.
|
Sentenza Corte di cassazione, Sez. V trib.,
17 luglio 2000, n. 9417,
Presidente Cantilli, elatore Graziadei
In rettifica della dichiarazione congiunta presentata
per il 1986 ai fini dell'Irpef e dell'Ilor da (...) Leonardi, titolare di
farmacia, e dal coniuge (...) Blessent, l'Ufficio delle imposte dirette di
Genova ha fra l'altro «ripreso a tassazione» le quote di utili, che
risultavano devolute a detto coniuge ed ai figli (...) e (...) Blessent in
forza di contratti di associazione in partecipazione, ritenendo i relativi
importi non deducibili dal reddito d'impresa.
La validità dell'accertamento, nella parte inerente a
detta ripresa, e stata negata dalla Commissione tributaria di primo grado
di Genova, ed invece affermata dalla Commissione di secondo grado.
La Corte d'appello di Genova, su ricorso proposto da
(...) Leonardi, anche in qualità di erede del defunto marito (...)
Blessent, e dagli altri eredi di quest'ultimo, (...), (...) e (...)
Blessent, ha annullato l'accertamento. Con riguardo agli utili di
pertinenza degli associati, la Corte di Genova ha osservato:
che
l'art. 59 primo comma del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 597,
nell'escludere la deduzione dal reddito d'impresa del compenso
dell'opera svolta dall'imprenditore e dai familiari indicati
nell'art. 15 terzo comma, si riferisce soltanto alla remunerazione
del lavoro dipendente od autonomo;
che
l'art. 62 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (non applicabile al
rapporto in discussione) conferma la distinzione fra compensi
lavorativi ed utili degli associati, autonomamente considerandoli, ai
fini della deducibilità dal reddito d'impresa, nei commi secondo e
quarto;
che
una diversa interpretazione del citato art. 59, nel senso di ritenere
compenso indetraibile, se erogato ai familiari di cui all'art. 15,
anche l'utile dell'associato in partecipazione, introdurrebbe una
discriminazione in danno degli esercizi farmaceutici, la cui gestione
non è consentita in forma di società, né dimpresa familiare;
che,
comunque, detta diversa interpretazione non avrebbe nel caso concreto
legittimato la rettifica, dato che il presupposto della
indeducibilità dall'imponibile dei compensi in questione, ravvisabile
nella qualità dei percipienti di familiari a carico e nel conseguente
godimento da parte dell'imprenditore di detrazioni d'imposta, non era
riscontrabile per il coniuge e per i figli della (...) Leonardi,
titolari di propri redditi, e come tali esclusi dal novero dei
«carichi di famiglia».
L'Amministrazione finanziaria, con ricorso notificato
l'11 dicembre 1997, ha chiesto la cassazione della sentenza della Corte
d'appello, limitatamente alla pronuncia sull'indicata questione, tornando
a sostenere che l'utile percepito dal coniuge non separato e dai figli di
età non superiore a ventisei anni dediti a studi o tirocini gratuiti, in
base ad associazione in partecipazione con esclusivo apporto d'opera,
rientra fra i compensi indetraibili, indipendentemente dal fatto che quei
familiari siano o meno fiscalmente a carico dell'imprenditore, ai sensi
dell'art. 59 primo comma del D.P.R. n. 597 del 1973; aggiunge che l'art.
62 del D.P.R. n. 917 del 1986, peraltro non applicabile al rapporto in
esame, non introduce in materia innovazioni, ma ribadisce e chiarisce
detto principio.
(...) Leonardi, (...), (...) e (...) Blessent, nelle qualità sopra
indicate, hanno presentato controricorso, pregiudizialmente deducendo
l'inammissibilità del ricorso del Ministero delle finanze, in ragione
dell'esaurirsi del relativo atto in una mera trascrizione di precedenti
scritti difensivi, senza la formulazione di specifiche critiche alle
argomentazioni svolte dalla Corte d'appello, e, in particolare, senza
censure avverso l'ultima delle riportate considerazioni della medesima
Corte. I contribuenti, contestualmente proponendo ricorso incidentale
condizionato, rilevano che l'eventuale accoglimento del ricorso principale
imporrebbe l'esame delle questioni da loro sollevate nella Precedente fase
processuale, circa la necessità di tenere conto degli effetti della
presentazione di dichiarazione integrativa per «condono non automatico»,
ai sensi degli artt. 32, 36 e 42 della legge 30 dicembre 1991 n. 413, e,
circa l'inapplicabilità delle sanzioni pecuniarie, ai sensi dell'art.
39-bis del D.P.R. 26 ottobre -1972 n. 636, per obiettiva incertezza sulla
portata delle norme impositive.
Motivi della decisione
I ricorsi devono essere riuniti, ai sensi dell'art. 335 cod. proc.
civ. Il ricorso principale è ammissibile. L'onere della specificazione
dei motivi per i quali si sollecita l'annullamento della sentenza
impugnata, ai sensi dell'art. 366 primo comma n. 4 cod. proc. civ., può
essere soddisfatto anche con la rinnovazione di una precedente tesi
difensiva, quando il dibattito processuale sia stato e rimanga incentrato
sull'esegesi di norme di legge, di modo che detta rinnovazione integri
pertinente critica della diversa interpretazione adottata dalla pronuncia
sfavorevole all'istante, con confutazione esplicita od implicita dei
relativi argomenti. Tanto si e verificato nella specie, perché la
riproposizione da parte dell'Amministrazione del riportato assunto, in
ordine alla portata dell'art. 59 del D.P.R. n. 597 del 1973, di per sé
coinvolge, sia pure in modo sintetico, tutte le rationes decidendi
della sentenza della Corte d'appello, contestandone le premesse. Il
ricorso principale è fondato, sulla scorta e nei limiti delle seguenti
considerazioni. L'art. 15 del D.P.R. n. 597 del 1973, occupandosi delle
detrazioni soggettive dall'imposta per familiari a carico, elenca, con il
terzo comma, il coniuge non separato, figli minori, i figli maggiorenni
inabili al lavoro, i figli di età non superiore a ventisei anni dediti a
studi o tirocini gratuiti, i genitori ed i suoceri ultrasessantenni, i
parenti e gli affini che ricevano alimenti, e poi, con il quinto comma,
fissa limiti di reddito personale il cui superamento preclude dette
detrazioni (limiti modificati con la riformulazione introdotta dall'art. 6
della legge 13 aprile 1977 n. 114). L'art. 59 primo comma dello stesso
D.P.R. n. 597 del 1973, al fine della determinazione del reddito
d'impresa, «non ammette deduzioni a titolo di compenso dell'opera svolta
dall'imprenditore e dalle persone indicate nel terzo comma dell'art. 15»
(aggiungendo, per evitare duplicità di tassazione, che i compensi di
quelle persone non vanno ad incrementare l'imponibile complessivo di chi
li eroga). La norma, assimilando al compenso dell'opera dell'imprenditore
il compenso dell'opera dei familiari considerati dall'art. 15 terzo comma,
prescinde dal fatto che tali familiari siano fiscalmente a carico, e,
quindi, trova applicazione anche quando siano superati i predetti limiti
massimi di reddito personale. Ciò si desume dal rinvio dell'art. 59 primo
comma alle «persone indicate nel terzo comma dell'art. 15», non alle
altre disposizioni nello stesso art. 15 contenute circa i requisiti
necessari affinché quelle persone siano qualificabili come familiari a
carico.
L'interpretazione letterale trova conforto nel rilievo che l'equiparazione
al compenso del titolare dell'impresa del compenso di detti familiari ha
base logica nella circostanza che l'uno e gli altri sono sostanzialmente i
beneficiari del profitto dell'esercizio imprenditoriale, e, dunque, non
provocano costi in senso proprio, quando attingano a tale profitto in via
di remunerazione dell'impegno personale profuso per conseguirlo.
In questa linea si pone, con maggiore chiarezza, il D.P.R. 22 dicembre
1986 n. 917 (non applicabile al rapporto in discussione per la pacifica
carenza dei presupposti fissati dall'art. 36 del D.P.R. 4 febbraio 1988 n.
42 ai fini della retroazione delle relative norme), il cui art. 62 secondo
comma, stabilendo analogo criterio d'indeducibilità dei compensi
dell'imprenditore e di alcuni suoi familiari, direttamente individua tali
familiari (comprendendo il coniuge, i figli minori, i figli non in grado
di svolgere attività lavorativa), senza alcun collegamento con la loro
eventuale condizione di persone fiscalmente a carico dell'imprenditore
stesso.
Resta da stabilire se il compenso al quale fa riferimento l'art. 59 primo
comma del D.P.R. n, 597 del 1973, comprenda o meno la quota degli utili
d'impresa che venga devoluta ai predetti familiari in esecuzione di un
contratto di associazione in partecipazione con apporto da parte
dell'associato esclusivamente d'attività personale.
Al quesito deve darsi risposta affermativa.
La nozione di compenso di una prestazione personale, in via generale, non
si esaurisce nelle categorie della retribuzione del lavoro subordinato e
del corrispettivo del lavoro autonomo, ne postula un rigoroso rapporto di
sinallagmaticità e proporzionalità, ma abbraccia ogni emolumento
patrimoniale che sia rivolto a riequilibrare le posizioni economiche
dell'autore e del beneficiario della prestazione medesima.
Detta nozione di compenso, in difetto di previsioni delimitative, non può
non includere la parte degli utili d'impresa di spettanza dell'associato
in partecipazione dietro apporto soltanto d'opera personale, atteso che la
relativa somma è il corrispettivo convenzionalmente pattuito per tale
apporto (art. 2549 cod. civ.), ed ha l'indicata funzione, anche se poi si
differenzia dalla remunerazione del lavoro subordinato od autonomo in
ragione del coinvolgimento del prestatore d'opera nei risultati
dell'impresa e della determinazione del quantum delle sue spettanze in
percentuale degli utili.
L'art. 59 in esame, facendo ampio riferimento al «compenso dell'opera
svolta», senza specificazioni di tipo restrittivo, non autorizza
distinzioni a seconda che si tratti della retribuzione del lavoro
subordinato o del corrispettivo del lavoro autonomo, ovvero dell'utile
dell'associato con apporto solo di prestazione personale, e, pertanto, è
applicabile in tutte le relative ipotesi, accomunate dalla presenza di un
versamento "compensativo" della prestazione altrui.
Il dato testuale è confermato, a contrario, dall'irragionevolezza di un
trattamento differenziato del terzo nei casi indicati, a fronte
dell'indiscutibile ricadere dei primi due nell'area di applicazione della
norma.
L'indeducibilità dal reddito d'impresa dei compensi, oltre che
dell'imprenditore, di alcuni suoi stretti familiari (con il corollario
della non tassabilità dei compensi stessi come redditi propri dei
percipienti) risponde all'esigenza di collegare il prelievo impositivo
all'intrinseca natura ed all'effettiva entità complessiva del provento
netto dell'impresa, evitando abbattimenti d'imponibile o riduzioni di
aliquote, per il tramite di un atto negoziale, in se lecito, che trasformi
il fisiologico godimento dei profitti da parte di quei familiari in un
costo di produzione, segnatamente quando il loro impegno nell'impresa
medesima, come nell'ipotesi di figli minori od ancora impegnati negli
studi, non possa superare la soglia di una modesta, per quanto lodevole
collaborazione.
La predetta distinzione eluderebbe l'evidenziata ratio legis, ed
ingiustificatamente premierebbe l'imprenditore, il quale opti, al fine di
assicurarsi la prestazione dei propri familiari dietro mercede, per
l'associazione in partecipazione, anziché per il rapporto di lavoro
subordinato od autonomo; la scelta, nonostante l'equiparabilità delle due
alternative con riguardo agli effetti sulla consistenza del reddito
d'impresa, conferirebbe un anomalo vantaggio fiscale, pacificamente
carente nel caso del rapporto di lavoro. Argomenti a confutazione della
soluzione raggiunta non possono essere desunti dalla successiva evoluzione
legislativa.
L'art. 62 del D.P.R. n. 917 del 1986, dopo aver fissato con il secondo
comma regola analoga a quella dell'art. 59 primo comma del D.P.R. n. 597
del 1973, espressamente contempla, con il quarto comma, fra l'altro, gli
utili spettanti all'associato in partecipazione, e ne consente la
detrazione.
Quest'ultima disposizione è esplicativa di un canone già esistente
nell'ordinamento, data l'obiettiva natura di costo dell'impresa dell'utile
distribuito all' associato in partecipazione, al pari del resto della
retribuzione del lavoratore dipendente o del corrispettivo del lavoratore
autonomo, ma non può interferire sull'ambito di applicazione dell'altra
norma, la quale non nega ai «compensi dell'opera» il carattere oggettivo
di costi, ma ne esclude eccezionalmente la deducibilità in presenza di
particolare qualità dello accipiens.
In conclusione, si deve affermare che le somme erogate dall'imprenditore
individuale a titolo di partecipazione agli utili, in favore
dell'associato che apporti nell'impresa esclusivamente la propria opera,
ricadono nei compensi non deducibili, di cui all'art. 59 primo comma del
D.P.R. n. 597 del 1973, ove il percipiente sia una delle persone elencate
nell'art. 15 terzo comma dello stesso decreto, ancorché non si trovi
nella condizione di familiare fiscalmente a carico. Il principio comporta
l'accoglimento del ricorso principale e la cassazione della sentenza
impugnata, ed inoltre richiede la prosecuzione della causa in sede di
rinvio, per l'esame delle questioni riproposte dai contribuenti e non
scrutinate dalla Corte di Genova, con il conseguenziale assorbimento del
ricorso incidentale.
Al Giudice di rinvio, che si designa in altra Sezione della medesima Corte
territoriale, si affida anche la statuizione sulle spese di questa fase
processuale.
IL COMMENTO

di Marco Levis, dottore commercialista
ed Emanuela Gromis di Trana, avvocato
Lart. 2 del Testo unico 3 luglio 1951, n. 573,
prevedeva la soggettività passiva dell'associazione in partecipazione ai
fini delle imposte dirette.
Secondo tale impostazione, il reddito conseguito si considerava prodotto
in modo unitario e autonomo in capo all'associazione, ed era quindi
imputato pro-quota all'associante e all'associato in base alle rispettive
quote di partecipazione agli utili fissate nel contratto. Successivamente,
l'art. 8 del Testo unico 29 gennaio 1958, n. 645, (che definiva i soggetti
passivi dell'imposta di ricchezza mobile) e l'art.
2, comma 1, lett. b), del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 598, (che definiva i soggetti passivi dell'imposta sul reddito
delle persone giuridiche) esclusero espressamente la soggettività
tributaria dell'associazione in partecipazione. Con tali provvedimenti
veniva accolta la tesi prevalente sostenuta dalla dottrina e dalla
giurisprudenza, che negava all'associazione in partecipazione sia la
natura di contratto societario, sia la natura di contratto associativo.
Da ultimo, gli artt. 5 e 87 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non hanno
più riportato nel testo normativo l'esclusione espressa dell'associazione
in partecipazione dai soggetti autonomi d'imposta, perché e ormai
definito che si tratta di un contratto di scambio, privo di organizzazione
e di patrimonio autonomi.
Allo stato attuale, pertanto, i soggetti passivi d'imposta per il reddito
prodotto nell'ambito di un contratto di associazione in partecipazione
sono l'associante e l'associato.
L'associante
All'associante compete in via esclusiva la
gestione dell'impresa o dell'affare. Tale esclusiva caratterizza il
contratto di associazione in partecipazione, differenziandolo da quello
societario, e consente di individuare un'associazione in partecipazione
rispetto a una società di fatto.
La veste di associante può essere assunta sia da una società, sia da un
imprenditore individuale. L'associante è anche il soggetto nei confronti
del quale si applicano le disposizioni previste dal Tuir per la
determinazione del reddito di impresa.
In particolare, l'associante e assoggettato all'imposta personale dovuta (Irpef
o Irpeg) riguardante il reddito prodotto nell'esercizio dell'impresa,
ridotto della quota di utile spettante all'associato, che non e
considerato utile associativo distribuito, ma corrispettivo dell'apporto.
Per l'associante tale corrispettivo rappresenta un costo e, di regola,
risulta deducibile dal reddito d'impresa indipendentemente dall'effettiva
imputazione a conto economico.
L 'associato
L'associato e il soggetto che corrisponde
l'apporto, al quale viene attribuita una quota parte degli utili
eventualmente prodotti nell'associazione in partecipazione.
Tale figura è caratterizzata da una partecipazione predeterminata al
rischio d'impresa (limitata al valore dell'apporto) e dalla mancanza di
poteri di gestione nell'impresa o nell'affare. L'associato ha la posizione
contrattuale del creditore per la parte di utili maturati e per la
restituzione dell'apporto alla cessazione del contratto.
Chiunque può rivestire la posizione contrattuale di associato: persona
fisica o giuridica, imprenditore o privato.
Sotto l'aspetto fiscale:
l'associato
non titolare di partita Iva che apporta solo lavoro consegue un
reddito di lavoro autonomo ai sensi dell'art. 49, comma 2, lett. c),
del Tuir, tassato in base all'art. 50, comma 8, del Tuir, secondo il
principio di cassa e con l'impossibilità di dedurre le spese
sostenute e le eventuali perdite sopportate;
l'associato
esercente arti e professioni è tassato come percettore di reddito di
lavoro autonomo in base all'art. 50, commi 1 - 7, del Tuir, per cui i
compensi percepiti e le spese sostenute concorrono a formare il reddito
imponibile in base al principio di cassa;
l'associato
imprenditore in contabilità semplificata e tassato come percettore di
reddito d'impresa secondo la regola generale contenuta nell'art. 79 del
Tuir, per cui gli utili e le perdite sono compresi fra componenti
positivi e negativi di reddito in base al principio della competenza
economica e tempora;
l'associato
imprenditore in contabilità ordinaria è tassato come percettore di
reddito d'impresa secondo la regola generale contenuta nell'art. 51 del
Tuir, per cui gli utili e le perdite sono compresi fra i componenti
positivi e negativi di reddito in base al principio della competenza
economica e temporale;
l'associato
non titolare di partita Iva che apporta un contributo patrimoniale
oppure un contributo misto capitale-lavoro, consegue uri reddito di
capitale ai sensi dell'art. 41, lett. f) del Tuir, tassato in base
all'art. 42, comma 1, del Tair secondo il principio di cassa e con
l'impossibilità di dedurre le spese sostenute e le eventuali perdite
sopportate. Per l'associato non titolare di partita Iva che apporta
capitale o un qualsiasi altro bene diverso dal lavoro, costituisce
reddito di capitale anche l'eventuale differenza tra il valore normale
dei beni apportati e il valore normale dei beni ricevuti alla scadenza
del contratto.
I compensi corrisposti ai familiari
In deroga alla regola generale di deducibilità
dal reddito di impresa, l'art. 62, comma 2, del Tuir prevede che non sono
ammesse deduzioni a titolo di compenso del lavoro prestato o dell'opera
svolta dall'imprenditore, dal coniuge, dai figli, affidati o affiliati
minori di età o permanentemente inabili al lavoro e dagli ascendenti,
nonché dai familiari
partecipanti all'impresa di cui alL'art, 5, comma 4.
Ovviamente, i compensi non ammessi in deduzione non concorrono a formare
il reddito complessivo dei percipienti.
La limitazione alla deducibilità dei compensi corrisposti ai familiari
trova applicazione anche nell'associazione in partecipazione, quando
l'associante e un imprenditore individuale e il familiare associato
apporta una prestazione di solo lavoro.
La sentenza
In merito a quanto sopra, la sentenza in
commento costituisce un utile riferimento perché, da un lato, stabilisce
che l'indeducibilità sancita dall'art. 62, comma 2, del Tuir ha carattere
sostanziale, dall'altro amplia la nozione di compenso derivante da
prestazioni di solo lavoro.
Per quanto riguarda il primo punto, la sentenza riprende quanto espresso
dall'Amministrazione finanziaria con risoluzione n. 9/674 del 16 maggio
1980, secondo cui le quote di utili attribuite ai soggetti indicati nel
comma 2 dell'art. 62 rientrano sempre fra i compensi indeducibili,
indipendentemente dal fatto che i familiari cui sono corrisposti risultino
fiscalmente a carico dell'imprenditore.
D'altra parte, come si legge nella relazione ministeriale alla bozza di
Testo unico, la ragione principale addotta a suo tempo per escludere la
deducibilità dei compensi ai familiari non consisteva nel fatto che si
trattava di persone che davano già diritto a detrazioni per carichi di
famiglia, ma nella necessità di evitare artificiose manovre di
contrazione degli utili, con conseguente erosione della materia
imponibile.
Secondo la Cassazione, l'equiparazione dei compensi corrisposti al
titolare e ai familiari ha una sua base logica nella circostanza che l'uno
e gli altri sono beneficiari del profitto dell'impresa, per cui non
possono generare costi quando attingono a tale profitto per remunerare il
proprio impegno personale profuso per conseguirlo.
Per quanto riguarda il secondo punto, la sentenza esclude limitazioni
specifiche alla nozione di compenso per prestazioni di solo lavoro, e vi
comprende a pieno titolo la quota di utili destinata agli associati in
esecuzione di un contratto di associazione in partecipazione con apporto
esclusivo di attività personale.
D'altra parte, la nozione di compenso di una prestazione personale non
può esaurirsi nelle due sole categorie reddituali del lavoro subordinato
e del lavoro autonomo, ma deve abbracciare qualsiasi corrispettivo
pattuito per un apporto di solo lavoro, come è appunto la quota di utili
attribuita all'associato nell'ambito di un contratto di associazione in
partecipazione.
I requisiti per la deducibilità.
Per completezza, si ricorda che la deducibilità delle quote di
partecipazione agli utili spettanti agli associati in partecipazione è
consentita:
se
il contratto di associazione in partecipazione risulta da atto
pubblico o da scrittura privata registrata;
se
tale contratto contiene la specificazione dell'apporto e, qualora questo
sia costituito da denaro e altri valori, elementi certi e precisi
comprovanti l'avvenuto apporto;
se
il contratto di associazione in partecipazione non consiste nell'apporto
rappresentato dall'emissione, da parte dell'associante, di titoli o
certificati in serie o di massa, i cui proventi siano soggetti a
ritenuta alla fonte a titolo di imposta ai sensi dell'art. 5 del D.L 30
settembre 1983, n. 512, convertito dalla legge 25 novembre 1983, n. 649;
se,
come si e visto, nell'ipotesi di apporto costituito da una prestazione
di lavoro, gli associati non sono familiari dell'associante compresi tra
quelli per i quali l'imprenditore non può fruire di deduzioni a titolo
di compenso del lavoro prestato o dell'opera svolta, ai sensi dell'art.
62, comma 2 del Tuir.
Infine, l'attribuzione delle quote di utili spettanti
all'associato in partecipazione da dedurre dal reddito d'impresa
dell'associante, deve trovare obiettiva giustificazione nel lavoro
effettivamente prestato o nell'entità dell'apporto di beni. |
|